[…] Stretti come erano, Gianni e la favola, uno nell’altra, una sensazione stretta, il mondo, intorno e loro come un’anima sola, forse la mano del destino, forse una volontà divina, non si sa ma si sa che nacquero altre favole. Molte. I suoi quadri sono un gioco solitario che appartiene a tutti. Sono la dissimulazione della tristezza nell’apparenza della risata. Sono il pagliaccio che muore sulla scena e tutti dicono com’è bravo. Non devono telefonare per dire al padre dove sono andati a finire. Sono a casa loro. Ovunque. Perché una metafora favoleggiante nel regno della falsità è sempre al posto giusto. Si propone come una cosa ma in realtà ne dice un’altra: proprio come loro, gli abitanti del mondo; è in perfetta coerenza.
Cella sa che da questo è il destino dei suoi figli e per questo continua a farne altri. Colorati, molli come le caramelle dell’infanzia, i tratti deformati come avviene quando i bambini si guardano nello specchio magico. Sorridenti, ridanciani, simpatici. Eppure sono metafora. È da tradurre quel loro aspetto ritratto in linea tonda e pingue. Da interpretare quella espressività un poco ebete eppure a pancia piena. Da leggere quel culto del bello che i personaggi di Cella esibiscono con arguta convinzione. Un tempo il buffone di corte, divertendo, lanciava stilettate ai potenti.
Dicono che il mondo non cambia mai. Occorre crederlo, se è vero che Gianni, per dire alcune cose, ha dovuto entrare in una favola”.
Claudio Rizzi, in occasione della mostra “Generazione anni ‘50” (2004) Presso il Museo Civico Bodini-Germonio (VA), in Biancoscuro – Rivista d’arte, cit., p. 36, n. 22, Giugno-Luglio 2017.
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